martedì 30 gennaio 2007

LA QUESTIONE DI CIPRO

LA QUESTIONE DI CIPRO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE


La questione cipriota è la problematica più annosa. È una delle più risalenti questioni ancora oggi aperte nell’ambito della comunità internazionale che le Nazioni Unite si trascinano senza riuscire a venirne a capo.
Periodicamente, il Consiglio di Sicurezza si è dovuto occupare della vicenda cipriota per eventi che hanno afflitto quell’isola e questo inizia con l’anno 1963, quando apparvero i primi scontri fra le due comunità la cui convivenza è sempre stata difficile, cui forse potremmo ricordare che ci sono radici storiche antichissime, probabilmente affondano addirittura all’epoca della guerra di Troia, questa convivenza, che non è stata assolutamente forviera di buon vicinato e, nell’isola di Cipro, si ritrovano appunto questi contrasti non sopiti e si va sempre alla ricerca di un modo di superamento dei medesimi che sia reciprocamente accettabile o soddisfacente in relazione anche alle idee moderne di convivenza pacifica fra le comunità.
Nel 1963, è incominciato l’interesse concreto del Consiglio di Sicurezza della situazione perché gli scontri fra le due comunità portarono dapprima gli inglesi su quel territorio, in seguito, su sollecitazione degli stessi inglesi, portarono alla creazione di una forza di peace-keeping, di mantenimento della pace, di una forza cuscinetto fra i contendenti che è una delle classiche operazioni di peace-keeping delle Nazioni Unite, che istituito originariamente per periodi limitati, infatti, si partì con tre mesi, ma successivamente è sempre stata regolarmente rinnovata e tuttora è presente; quindi sono trascorsi oltre quarant’anni e questa presenza delle Nazioni Unite, attraverso questa sorta di caschi blu, si protrae ancora oggi, segno tangibile del fatto che permane una situazione di tensione che è suscettibile di degenerare in qualunque momento e che è tenuta a bada proprio dalla presenza fisica di queste forze delle Nazioni Unite.
Dopo il 1946, si è avuto l’intervento militare della Turchia sulla base dell’esigenza di fronteggiare un tentativo di colpo di Stato, tendeva a realizzare l’annessione praticamente dell’isola alla Grecia all’epoca. Questo era il principio dei colonnelli e quindi del prevalere di idee piuttosto così decise in materia di uso della forza per il conseguimento dei risultati.
L’intervento militare turco del 20 luglio 1974, che la Turchia giustificava basandosi su talune disposizioni del Trattato di Garanzia del 1960, era tuttavia un intervento sicuramente da valutare in termini di contrasto, e con il trattato di garanzia medesimo che pure la Turchia invocava e, soprattutto, anche al di là dei dubbi che questo riferimento alle norme del trattato potevano determinare sicuramente con l’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite – i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia un qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite – cioè quella norma fondamentale della Carta che pone il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, specialmente se poi si tratta di un uso della forza che è diretto contro l’integrità territoriale di uno Stato. L’integrità territoriale è un punto decisivo in tutta questa vicenda, è una considerazione che domina in positivo la situazione.
Il rigetto o il rifiuto deciso di ipotesi e di annessione e di divisione o di spartizione dell’isola è in fondo un corollario, ma un’applicazione di questa idea fondamentale della integrità territoriale che le Nazioni Unite in principio difendono per la ragione che non si può impedire giuridicamente una secessione, ma purché non si tratti di una secessione, per così dire, alimentata o fomentata o appoggiata dall’esterno, purché non sia una secessione indotta dall’esterno.
L’idea, d’altra parte, che si potesse fare riferimento alla autodeterminazione dei popoli che è un’idea difesa dei turco-ciprioti specialmente dal capo del governo cipriota che è sempre lo stesso dall’epoca in cui questo problema si pose per la prima volta all’attenzione del Consiglio di Sicurezza, dal tempo per cui acquistò l’indipendenza la Turchia nel 1960; quest’idea è stata respinta dalla comunità internazionale perché non si in un ambito proprio dell’autodeterminazione quando ci si riferisce a Cipro.
Sull’autodeterminazione, prevalendo la idea della integrità territoriale che è il principio, il concetto antitetico a quello dell’autodeterminazione la quale porta alla secessione.
Il riconoscimento di un popolo del diritto del diritto di autodeterminazione, secondo una tendenza della comunità internazionale che si è andata sviluppandosi, in modo essenziale, in materia di lotta al colonialismo e, quindi, di affrancamento dei popoli della dominazione coloniale, trova un suo limite nell’integrità territoriale che in principio va rispettato da parte degli Stati.
Il Consiglio di Sicurezza di fronte all’intervento militare turco reagì prontamente con l’adozione di due risoluzioni che sono capisaldi nell’ambito di questa vicenda complessiva di Cipro: la risoluzione del 20 luglio 1974 ed un’altra del 12 marzo 1975, che peraltro segue una risoluzione dell’Assemblea Generale del novembre 1974 e che fa propria questa risoluzione. Entrambi gli organi furono investiti della cognizione della questione e si pronunciarono.
La sostanza di queste risoluzioni fu in pratica di chiedere che cessassero i combattimenti ed esigere e non imporre, che si ponesse fine all’intervento militare straniero a Cipro in quanto intervento in contrasto con la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica, l’unità dello Stato di Cipro e l’invito, successivamente, a ripristinare condizioni pacifiche e l’ordine costituzionale che era stato turbato appunto dall’intervento di forze militari. E questo del ritiro delle forze militari straniere diventa una sorta di valido motivo nelle risoluzioni, nelle prese di posizioni delle Nazioni Unite a questo riguardo. Richieste di ritiro, non si direbbe che si possa individuare decisioni e, quindi, valutazioni nettamente negative della situazione che, peraltro, non sono mai seguite, per quanto concerne l’intervento militare, dall’applicazione di sanzioni nei riguardi dello Stato che si rende colpevole della violazione del divieto dell’uso della forza.
Vi è sempre un atteggiamento relativamente morbido del Consiglio di Sicurezza, cosa che si inquadra nella situazione internazionale complessiva dell’epoca, nella quale il sistema di garanzia collettivo, previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, funzionava poco male per la ragione che era bloccato generalmente dal vero incrociato di questo o quello dei cinque membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza e, d’altra parte, gli stessi Stati, che erano interessati più direttamente alla composizione del conflitto, non volevano; in pratica, questo emergeva dalla lettura dei temi della situazione, forzava la mano nei confronti di questo o quello dei contendenti. Non si dimentichi che e la Grecia e la Turchia facevano parte della NATO. Era una classica controversia nell’ambito di un certo campo delle relazioni internazionali quello che registrava come capofila – appunto gli Stati Uniti – in contrapposizione al campo dominato dall’URSS e per quanto fosse perniciosa questa situazione la tendenza era non pronunciarsi nettamente a favore dell’uno o dell’altro, ma piuttosto a superare il conflitto e soltanto le parti ad un regolamento politico della questione e questo è infatti un altro lift motif che ricorre nelle risoluzioni concernenti questo campo, dove, appunto, si cerca sempre di spingere le parti verso la ricerca di un regolamento politico.
Si mette da parte l’idea di un intervento sanzionatorio. Prevedere sanzioni che non si significa necessariamente azione coercitiva che era terribilmente arduo poter immaginare in quel periodo, ma neppure misure non implicanti l’uso della forza con quello di carattere economico, anche da quelle che pure la Carta delle Nazioni Unite prevede come conseguenza di un accertamento della violazione della pace o di un atto di aggressione, anche di una mera minaccia alla pace, pure quelle venivano, praticamente, poste da parte nel senso che non si ricorrevano ad azioni di misure del genere e si spingeva, al contrario, verso un regolamento politico della questione; la ricerca, quindi, di una soluzione concordata tra le parti in ordine al problema che era sul tappeto. Le Nazioni Unite, contemporaneamente, peraltro, attraverso e il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, rivolgono l’attenzione all’effetto, per così dire, dell’intervento militare turco, che è costituito dalla proclamazione di uno stato federato turco, a seguito dell’intervento del 1974 e che, successivamente, nel novembre 1983, diventa proclamazione di uno Stato indipendente. Uno Stato indipendente della Repubblica turca di Cipro del Nord, che viene proclamato in funzione abbastanza trasparentemente dell’obiettivo politico di creare un fatto compiuto, facendo leva sul principio di effettività, che è un principio che domina tradizionalmente le relazioni internazionali, per cui dinanzi ad una secessione che si realizza e quindi alla nascita oggettiva dei fatti di uno Stato indipendente e sovrano. La comunità internazionale non ha che da prendere atto della situazione e, quindi, riconosce il dato di fatto del processo di formazione di un nuovo Stato.
Di fronte a questa situazione che è, appunto, il portato dell’intervento militare del 1974, poi ha un suo seguito anche più spinto e rilevante nel 1983 con la proclamazione dello Stato indipendente, si passa dall’affermazione di un autonomia di tipo federale che implica sempre l’accettazione di un’autorità sopra ordinata; appunto, l’autorità federale che si contrappone all’autorità dello Stato federato cioè ad un margine di autonomia ma, comunque, rientra in un quadro statale più ampio che non comprende. Si passa da questo alla proclamazione di uno Stato indipendente e, quindi, rifiutando qualunque autorità sovra ordinata sotto qualunque versante, uno Stato, che nell’intendimento di chi lo proclama, si contrappone allo Stato sotto la cui autorità quella popolazione, quel territorio si trovava sino a quel momento.
Di fronte a questo effetto dell’intervento militare turco, la reazione della comunità internazionale è più decisa per la ragione che il Consiglio di Sicurezza, immediatamente, qualifica in termini giuridici questa nuova situazione, anziché prenderne atto come ci si sarebbe aspettato secondo i canoni classici. Il Consiglio di Sicurezza bolla come giuridicamente nulla, come illegale, come non avvenuta la nascita dello Stato turco-cipriota; la considera come una situazione che è in contrasto con le norme esistenti e che come tale non va riconosciuta e si appella e rivolge un attento invito a tutti gli Stati a non riconoscere la situazione che si è venuta a determinare in maniera da creare una sorta di isolamento giuridico del sedicente nuovo Stato, perché, in realtà, alla base di questa proclamazione di Stato sovrano non vi è quel requisito che il diritto internazionale tradizionalmente richiede e continua a far richiesta affinché si possa parlare di uno Stato soggetto di diritto internazionale che è costituito dall’indipendenza, cioè a dire la valutazione di questo Stato in relazione non di uno Stato indipendente e, dunque, vi è una base nei fatti di questa posizione di contrasto delle Nazioni Unite – il contrasto giuridico, di valutazione giuridica negativa del Consiglio di Sicurezza – rispetto al fatto della formazione dello Stato per come si vuole prospettare da parte dell’entità che vede la luce.
Si dice in definitiva: questo Stato si forma esclusivamente grazie al supporto militare di un altro Stato, uno Stato straniero cioè in particolare la Turchia, la quale solo ha compiuto quell’intervento militare nel 1974, ma mantiene una presenza militare assai consistente nell’isola con un numero di trentamila militari che sono dislocati sul lembo nord del territorio cipriota a sostenere la nuova entità che si è proclamata come, appunto, Stato sovrano e, dunque, nuovo Stato. Questo sta ad indicare, in definitiva, che si è in presenza non di un vero e proprio Stato nel senso del diritto internazionale, in quanto ciò sta a significare che lo Stato deve godere dell’indipendenza, ma si è in presenza, in realtà, di una amministrazione locale subordinata, che è sottoposta ad un’autorità esterna quale è quella che fa capo al governo di Ankara. In queste condizioni la situazione non merita di essere riconosciuta, alla stregua delle valutazioni correnti del diritto internazionale, come rispondente alla nascita di un nuovo soggetto di diritto internazionale questo Stato che si proclama come nuovo soggetto di diritto internazionale, repubblica turca di Cipro del nord, e non va riconosciuto.
La reazione della comunità internazionale deve essere nel senso di non tener conto di questa situazione e di continuare a considerare questa una entità sprovvista di personalità internazionale. Questa entità che si presenta piuttosto come una sorta di governo fantoccio nel senso che l’autorità reale è fuori di quell’ambito e quella che determina gli indirizzi complessivi nella condotta di quello Stato sia sul piano interno sia sul piano esterno, e questa amministrazione provvede alla cura degli affari correnti sotto le direttive di quest’autorità esterna che si individua nel governo turco.
Il Consiglio di Sicurezza deplora che questo sia avvenuto per la ragione che è accaduto in contrasto con i trattati che sono alla base della nascita di Cipro come Stato indipendente e sovrano. Il Consiglio di Sicurezza ritiene che la situazione non debba essere riconosciuta e che ci si debba attestare su una posizione di isolamento giuridico di questo Stato. Con questo Stato non si dovrebbe entrare in rapporti simili a quelli che sussistono normalmente fra enti soggetti del diritto internazionale. La situazione si può definire come quella di un territorio occupato da una autorità o potenza straniera. Un territorio illegittimamente sottratto allo Stato, cui compete la sovranità; questo sulla base dei trattati che presiedono alla nascita dello Stato cipriota e sottoposta ad una autorità che non ha titolo per esercitare questa sua posizione sovrastante e che, quindi, va contrastata non con la forza ma fronteggiata giuridicamente, disconoscendone l’esistenza come soggetto internazionale che illecitamente pretende di avere.
Questo è il quadro giuridico che emerge dalla considerazione delle prese di posizione successive a questi atteggiamenti assunti dalla comunità turco – cipriota, raggruppatosi nella parte nord dell’isola e che è stata eseguita in pratica dall’intera comunità internazionale per la ragione che se si prescinde dal riconoscimento abbastanza ovvio della Turchia medesima come Stato indipendente e sovrano. La repubblica turco – cipriota è stata riconosciuta dalla Turchia, ma questo è ovvio, essendo stata la Turchia l’artefice di questa situazione, non vi sono altri riconoscimenti.
Si è parlato di qualche disposizione a riconoscere, ad esempio, da parte del Pakistan, in realtà non risulta esserci stato mai un riconoscimento della nuova entità come Stato sovrano.
Il riconoscimento è largamente praticato nelle relazioni internazionali come atto politico cioè a dire come atto che manifesta, appunto, l’intenzione degli Stati preesistenti di allacciare i rapporti diplomatici con lo Stato di nuova formazione, ma anche come strumento di accertamento della situazione che si è venuta a creare.
Nel diritto internazionale, non esistendo un’autorità sovraordinata che possa per tutti, a nome di tutti, accertare che un determinato fatto riveste una certa qualità giuridica nella specie che si è in presenza di un vero e proprio Stato-sovrano e indipendente; quest’accertamento è rimesso agli stessi Stati che compongono la comunità internazionale, non è accentrato l’accertamento ma è diffuso nell’ambito della comunità e, quindi, il riconoscimento finisce con l’assumere anche questa valenza di accertamento. Negare l’accertamento significa non soltanto manifestare una volontà di non allacciare i rapporti come soggetti paritari – secondo le linee comuni delle relazioni internazionali -, ma sta ad indicare anche la constatazione che non ci sono i presupposti affinché si possa parlare di uno Stato nel senso del diritto internazionale. Quando una situazione è generalizzata, diviene una situazione che pesa, in maniera evidente, nello ambito della comunità internazionale.
Di fronte a questa situazione, poc’anzi descritta, qual è la prospettiva che si delinea? Le Nazioni Unite, attraverso il Segretario Generale, questa volta, sono riuscite in effetti a porre in atto un piano molto complesso e articolato, questo global settlement della questione cipriota. È un imponente corpus normativo, la cui complessità evidentemente è già un ostacolo alla conoscenza. Questa è una delle ragioni per cui – e qui ci si interroga sulle ragioni del veto russo – la Russia ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza, al fine di motivare il suo veto, che è stato l’unico voto contrario in seno ai quindici che formano il Consiglio di Sicurezza, che “…ebbene, che ci sia tempo adeguato per una conoscenza nei contenuti di questo complesso normativo, che si possa avere il tempo della debita riflessione; che non si sia sotto l’influenza dell’autorità del Consiglio di Sicurezza; che coloro che vanno a votare il referendum non sentano sopra di sé il peso dell’autorità del organo principale delle Nazioni Unite, il Consiglio; non lo facciano perché viene considerato un qualcosa che viene dall’esterno, perché lo avvertono come una loro libera scelta, quindi, rispetto che si deve alla volontà delle scelte, all’autonomia di valutazione di chi va a votare per situazioni di questo genere”.
La ragione tecnica, che è quella che era stata diffusa maggiormente, è costituita dal fatto che si prevede accanto a quest’applicazione di tutte queste norme la sostituzione dell’attuale forza che realizza l’operazione di peace-keeping attualmente, che è quella informata ai principi del 1964 quando venne creata questa forza di peace-keeping a Cipro. Si sostituisce con una forza di peace-keeping con compiti molto articolati sui quali la Russia vuole riflettere per la ragione che si tratta di una nuova figura, di una caratterizzazione diversa di operazione di peace-keeping che potrebbe poi servire da modello anche in altre situazioni e, dunque, reclama un diritto di riflessione sulla impostazione e l’articolazione di questa operazione, sostitutiva di quella esistente proprio in funzione di una serie di nuovi compiti che vengono attribuiti.
Il Consiglio di Sicurezza, a causa del veto sovietico, motivato in questa maniera, non ha approvato l’opera portata a compimento del Segretario generale e rispetto a cui, d’altra parte, c’erano state già delle prese di distanza da parte delle stesse comunità interessate, perché nell’ambito della comunità turco-cipriota, come è ben noto, il presidente è uno che dice “no” a tutto, per cui la proposta di referendum, che è pure passata con una larga maggioranza nel settore turco-cipriota. Questo perché portatore fondamentale dell’idea della spartizione di una unità indipendente, cioè non si accetta da quel punto di vista neppure l’idea di una federazione con le larghissime autonomie che risultano da questo quadro normativo, che sta ad indicare, praticamente, che poi l’unità esiste solo per la ragione che la repubblica di Cipro parli con una sola voce nelle relazioni internazionali e possa in ipotesi di necessità difendere unitariamente le sue frontiere contro interventi militari esterni o partecipare in maniera unita ad eventuali operazioni militari che fossero decisi – per esempio – nell’ambito del Consiglio di Sicurezza, ma, poi, il resto – certo vi è anche il profilo della cittadinanza unica – sono le singole entità che fruiscono dei poteri sovrani e, quindi, c’è un’autonomia che è apprezzabile come rispettosa di quei principi di quel regolamento politico che da sempre il Consiglio di Sicurezza ha elaborato servendosi, d’altra parte, di scelte delle parti che già figuravano nei trattati del 1960.
L’idea del carattere bi-comunitario dal punto di vista politico, per esempio, l’idea del carattere bi-zonale dal punto di vista territoriale sono dei principi che l’idea che si dovesse assolutamente escludere la possibilità di secessione e quella di divisione o partizione dell’isola, e così via; questi sono elementi di indirizzo politico che sono stati ripetutamente enunciati dal Consiglio di Sicurezza che costituiscono i motivi ispiratori fondamentali della soluzione complessiva del problema cipriota, ma fermi questi principi, che sono la base della composizione del contrasto fra le comunità e, quindi, la creazione di un modus vivendi reciprocamente accettabile tra le stesse, i poteri sovrani di applicazione quotidiana e direttamente rilevanti sono poteri che le due comunità esercitano sulla base di rispettive costituzioni all’interno di questo quadro federale e che realizzano un’autonomia critica.
Volendo finire ad una valutazione conclusiva, trovo che anche se l’esito del referendum non è stato confortante dal punto di vista della conclusione della vicenda nel senso del superamento del contrasto e, quindi, della nascita di uno Stato federale con le caratteristiche che risultano da questi regolamenti, tuttavia, questo esito registra un passo avanti di non trascurabile portata per il fatto proprio che esso è stato approvato con una maggioranza rilevante – il 64% - dalla comunità turco-cipriota, sebbene approvare questo referendum significa abbandonare le idee di autonomia radicale e lo completa e, quindi, indipendenza che la comunità turca ha manifestato attraverso la proclamazione di uno Stato indipendente come la repubblica turco di Cipro del Nord ed essere entrati nell’ordine di idee dell’appartenenza di un’entità federale con larga autonomia.
Le disposizioni, senza entrare nel dettaglio, sono certamente favorevoli ad una considerazione di piena autonomia della comunità turco-cipriota, tenuto conto anche del rapporto numerico nella popolazione dell’una e dell’altra e ci sono poteri appunto di veto che fanno si che non si possa decidere unitariamente se non si è d’accordo a livello delle due comunità.
È molto importante la possibilità di bloccare una decisione se non viene condivisa a livello anche della comunità minore rispetto alla comunità maggiore cioè il principio di maggioranza non può giocare. Da questo punto di vista se ne avvantaggia la comunità minore, altrimenti subirebbe la prevalenza della comunità numericamente maggiore, ma, malgrado ciò, vi è una parte della popolazione turco-cipriota, che è velata da quel 35% che non accetta di far parte di una entità federale e che, quindi, continua a essere attestato, evidentemente, sull’idea di una indipendenza di uno Stato diverso della repubblica di Cipro. Il fatto che si sia determinata una maggioranza consistente nel senso dell’abbandono dell’idea del genere e, pertanto, dell’accettazione dell’idea invece di far parte di un’unica entità statale di tipo federale, rappresenta un passo in avanti nella direzione della soluzione del problema, mentre le resistenze da parte greco – cipriota sembra che siano più legata proprio a quei fattori che emergevano nella posizione sovietica contraria ad approvare al momento un piano, questo non significa che la Russia escluda la possibilità in futuro di fare cadere questo veto e di consentire anch’essa all’approvazione di un regolamento politico sulle basi che risultano da quegli atti da parte della comunità greco- cipriota pare che le resistenze siano più legate proprio al mancato approfondimento, per cui non vi è stato il tempo nei termini della soluzione di singoli questioni rispetto a cui non deve essere un salto nel buio approvare un regolamento. È comprensibile che vi sia un’aspettativa di tempo utile all’approfondimento della situazione, eventualmente anche a suggerire qualche ritocco, modifica più vicina alla realtà delle esigenze oggettive che le parti interessate sono collocate meglio di qualunque altro nel prospettare.
Si può, infine, esprimere un ottimismo circa il superamento allo stato attuale dell’impasse e, quindi, circa la tanto sospirata soluzione politica che dovrebbe comportare il riconoscimento da tutti, da entrambe le comunità di cui l’unico Stato – la repubblica di Cipro -, articolata in maniera federale con le autonomie di notevole spessore che questi atti assicurano ad entrambe le comunità.


Giuseppe Paccione
La questione cipriota è la problematica più annosa. È una delle più risalenti questioni ancora oggi aperte nell’ambito della comunità internazionale che le Nazioni Unite si trascinano senza riuscire a venirne a capo.
Periodicamente, il Consiglio di Sicurezza si è dovuto occupare della vicenda cipriota per eventi che hanno afflitto quell’isola e questo inizia con l’anno 1963, quando apparvero i primi scontri fra le due comunità la cui convivenza è sempre stata difficile, cui forse potremmo ricordare che ci sono radici storiche antichissime, probabilmente affondano addirittura all’epoca della guerra di Troia, questa convivenza, che non è stata assolutamente forviera di buon vicinato e, nell’isola di Cipro, si ritrovano appunto questi contrasti non sopiti e si va sempre alla ricerca di un modo di superamento dei medesimi che sia reciprocamente accettabile o soddisfacente in relazione anche alle idee moderne di convivenza pacifica fra le comunità.
Nel 1963, è incominciato l’interesse concreto del Consiglio di Sicurezza della situazione perché gli scontri fra le due comunità portarono dapprima gli inglesi su quel territorio, in seguito, su sollecitazione degli stessi inglesi, portarono alla creazione di una forza di peace-keeping, di mantenimento della pace, di una forza cuscinetto fra i contendenti che è una delle classiche operazioni di peace-keeping delle Nazioni Unite, che istituito originariamente per periodi limitati, infatti, si partì con tre mesi, ma successivamente è sempre stata regolarmente rinnovata e tuttora è presente; quindi sono trascorsi oltre quarant’anni e questa presenza delle Nazioni Unite, attraverso questa sorta di caschi blu, si protrae ancora oggi, segno tangibile del fatto che permane una situazione di tensione che è suscettibile di degenerare in qualunque momento e che è tenuta a bada proprio dalla presenza fisica di queste forze delle Nazioni Unite.
Dopo il 1946, si è avuto l’intervento militare della Turchia sulla base dell’esigenza di fronteggiare un tentativo di colpo di Stato, tendeva a realizzare l’annessione praticamente dell’isola alla Grecia all’epoca. Questo era il principio dei colonnelli e quindi del prevalere di idee piuttosto così decise in materia di uso della forza per il conseguimento dei risultati.
L’intervento militare turco del 20 luglio 1974, che la Turchia giustificava basandosi su talune disposizioni del Trattato di Garanzia del 1960, era tuttavia un intervento sicuramente da valutare in termini di contrasto, e con il trattato di garanzia medesimo che pure la Turchia invocava e, soprattutto, anche al di là dei dubbi che questo riferimento alle norme del trattato potevano determinare sicuramente con l’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite – i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia un qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite – cioè quella norma fondamentale della Carta che pone il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, specialmente se poi si tratta di un uso della forza che è diretto contro l’integrità territoriale di uno Stato. L’integrità territoriale è un punto decisivo in tutta questa vicenda, è una considerazione che domina in positivo la situazione.
Il rigetto o il rifiuto deciso di ipotesi e di annessione e di divisione o di spartizione dell’isola è in fondo un corollario, ma un’applicazione di questa idea fondamentale della integrità territoriale che le Nazioni Unite in principio difendono per la ragione che non si può impedire giuridicamente una secessione, ma purché non si tratti di una secessione, per così dire, alimentata o fomentata o appoggiata dall’esterno, purché non sia una secessione indotta dall’esterno.
L’idea, d’altra parte, che si potesse fare riferimento alla autodeterminazione dei popoli che è un’idea difesa dei turco-ciprioti specialmente dal capo del governo cipriota che è sempre lo stesso dall’epoca in cui questo problema si pose per la prima volta all’attenzione del Consiglio di Sicurezza, dal tempo per cui acquistò l’indipendenza la Turchia nel 1960; quest’idea è stata respinta dalla comunità internazionale perché non si in un ambito proprio dell’autodeterminazione quando ci si riferisce a Cipro.
Sull’autodeterminazione, prevalendo la idea della integrità territoriale che è il principio, il concetto antitetico a quello dell’autodeterminazione la quale porta alla secessione.
Il riconoscimento di un popolo del diritto del diritto di autodeterminazione, secondo una tendenza della comunità internazionale che si è andata sviluppandosi, in modo essenziale, in materia di lotta al colonialismo e, quindi, di affrancamento dei popoli della dominazione coloniale, trova un suo limite nell’integrità territoriale che in principio va rispettato da parte degli Stati.
Il Consiglio di Sicurezza di fronte all’intervento militare turco reagì prontamente con l’adozione di due risoluzioni che sono capisaldi nell’ambito di questa vicenda complessiva di Cipro: la risoluzione del 20 luglio 1974 ed un’altra del 12 marzo 1975, che peraltro segue una risoluzione dell’Assemblea Generale del novembre 1974 e che fa propria questa risoluzione. Entrambi gli organi furono investiti della cognizione della questione e si pronunciarono.
La sostanza di queste risoluzioni fu in pratica di chiedere che cessassero i combattimenti ed esigere e non imporre, che si ponesse fine all’intervento militare straniero a Cipro in quanto intervento in contrasto con la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica, l’unità dello Stato di Cipro e l’invito, successivamente, a ripristinare condizioni pacifiche e l’ordine costituzionale che era stato turbato appunto dall’intervento di forze militari. E questo del ritiro delle forze militari straniere diventa una sorta di valido motivo nelle risoluzioni, nelle prese di posizioni delle Nazioni Unite a questo riguardo. Richieste di ritiro, non si direbbe che si possa individuare decisioni e, quindi, valutazioni nettamente negative della situazione che, peraltro, non sono mai seguite, per quanto concerne l’intervento militare, dall’applicazione di sanzioni nei riguardi dello Stato che si rende colpevole della violazione del divieto dell’uso della forza.
Vi è sempre un atteggiamento relativamente morbido del Consiglio di Sicurezza, cosa che si inquadra nella situazione internazionale complessiva dell’epoca, nella quale il sistema di garanzia collettivo, previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, funzionava poco male per la ragione che era bloccato generalmente dal vero incrociato di questo o quello dei cinque membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza e, d’altra parte, gli stessi Stati, che erano interessati più direttamente alla composizione del conflitto, non volevano; in pratica, questo emergeva dalla lettura dei temi della situazione, forzava la mano nei confronti di questo o quello dei contendenti. Non si dimentichi che e la Grecia e la Turchia facevano parte della NATO. Era una classica controversia nell’ambito di un certo campo delle relazioni internazionali quello che registrava come capofila – appunto gli Stati Uniti – in contrapposizione al campo dominato dall’URSS e per quanto fosse perniciosa questa situazione la tendenza era non pronunciarsi nettamente a favore dell’uno o dell’altro, ma piuttosto a superare il conflitto e soltanto le parti ad un regolamento politico della questione e questo è infatti un altro lift motif che ricorre nelle risoluzioni concernenti questo campo, dove, appunto, si cerca sempre di spingere le parti verso la ricerca di un regolamento politico.
Si mette da parte l’idea di un intervento sanzionatorio. Prevedere sanzioni che non si significa necessariamente azione coercitiva che era terribilmente arduo poter immaginare in quel periodo, ma neppure misure non implicanti l’uso della forza con quello di carattere economico, anche da quelle che pure la Carta delle Nazioni Unite prevede come conseguenza di un accertamento della violazione della pace o di un atto di aggressione, anche di una mera minaccia alla pace, pure quelle venivano, praticamente, poste da parte nel senso che non si ricorrevano ad azioni di misure del genere e si spingeva, al contrario, verso un regolamento politico della questione; la ricerca, quindi, di una soluzione concordata tra le parti in ordine al problema che era sul tappeto. Le Nazioni Unite, contemporaneamente, peraltro, attraverso e il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, rivolgono l’attenzione all’effetto, per così dire, dell’intervento militare turco, che è costituito dalla proclamazione di uno stato federato turco, a seguito dell’intervento del 1974 e che, successivamente, nel novembre 1983, diventa proclamazione di uno Stato indipendente. Uno Stato indipendente della Repubblica turca di Cipro del Nord, che viene proclamato in funzione abbastanza trasparentemente dell’obiettivo politico di creare un fatto compiuto, facendo leva sul principio di effettività, che è un principio che domina tradizionalmente le relazioni internazionali, per cui dinanzi ad una secessione che si realizza e quindi alla nascita oggettiva dei fatti di uno Stato indipendente e sovrano. La comunità internazionale non ha che da prendere atto della situazione e, quindi, riconosce il dato di fatto del processo di formazione di un nuovo Stato.
Di fronte a questa situazione che è, appunto, il portato dell’intervento militare del 1974, poi ha un suo seguito anche più spinto e rilevante nel 1983 con la proclamazione dello Stato indipendente, si passa dall’affermazione di un autonomia di tipo federale che implica sempre l’accettazione di un’autorità sopra ordinata; appunto, l’autorità federale che si contrappone all’autorità dello Stato federato cioè ad un margine di autonomia ma, comunque, rientra in un quadro statale più ampio che non comprende. Si passa da questo alla proclamazione di uno Stato indipendente e, quindi, rifiutando qualunque autorità sovra ordinata sotto qualunque versante, uno Stato, che nell’intendimento di chi lo proclama, si contrappone allo Stato sotto la cui autorità quella popolazione, quel territorio si trovava sino a quel momento.
Di fronte a questo effetto dell’intervento militare turco, la reazione della comunità internazionale è più decisa per la ragione che il Consiglio di Sicurezza, immediatamente, qualifica in termini giuridici questa nuova situazione, anziché prenderne atto come ci si sarebbe aspettato secondo i canoni classici. Il Consiglio di Sicurezza bolla come giuridicamente nulla, come illegale, come non avvenuta la nascita dello Stato turco-cipriota; la considera come una situazione che è in contrasto con le norme esistenti e che come tale non va riconosciuta e si appella e rivolge un attento invito a tutti gli Stati a non riconoscere la situazione che si è venuta a determinare in maniera da creare una sorta di isolamento giuridico del sedicente nuovo Stato, perché, in realtà, alla base di questa proclamazione di Stato sovrano non vi è quel requisito che il diritto internazionale tradizionalmente richiede e continua a far richiesta affinché si possa parlare di uno Stato soggetto di diritto internazionale che è costituito dall’indipendenza, cioè a dire la valutazione di questo Stato in relazione non di uno Stato indipendente e, dunque, vi è una base nei fatti di questa posizione di contrasto delle Nazioni Unite – il contrasto giuridico, di valutazione giuridica negativa del Consiglio di Sicurezza – rispetto al fatto della formazione dello Stato per come si vuole prospettare da parte dell’entità che vede la luce.
Si dice in definitiva: questo Stato si forma esclusivamente grazie al supporto militare di un altro Stato, uno Stato straniero cioè in particolare la Turchia, la quale solo ha compiuto quell’intervento militare nel 1974, ma mantiene una presenza militare assai consistente nell’isola con un numero di trentamila militari che sono dislocati sul lembo nord del territorio cipriota a sostenere la nuova entità che si è proclamata come, appunto, Stato sovrano e, dunque, nuovo Stato. Questo sta ad indicare, in definitiva, che si è in presenza non di un vero e proprio Stato nel senso del diritto internazionale, in quanto ciò sta a significare che lo Stato deve godere dell’indipendenza, ma si è in presenza, in realtà, di una amministrazione locale subordinata, che è sottoposta ad un’autorità esterna quale è quella che fa capo al governo di Ankara. In queste condizioni la situazione non merita di essere riconosciuta, alla stregua delle valutazioni correnti del diritto internazionale, come rispondente alla nascita di un nuovo soggetto di diritto internazionale questo Stato che si proclama come nuovo soggetto di diritto internazionale, repubblica turca di Cipro del nord, e non va riconosciuto.
La reazione della comunità internazionale deve essere nel senso di non tener conto di questa situazione e di continuare a considerare questa una entità sprovvista di personalità internazionale. Questa entità che si presenta piuttosto come una sorta di governo fantoccio nel senso che l’autorità reale è fuori di quell’ambito e quella che determina gli indirizzi complessivi nella condotta di quello Stato sia sul piano interno sia sul piano esterno, e questa amministrazione provvede alla cura degli affari correnti sotto le direttive di quest’autorità esterna che si individua nel governo turco.
Il Consiglio di Sicurezza deplora che questo sia avvenuto per la ragione che è accaduto in contrasto con i trattati che sono alla base della nascita di Cipro come Stato indipendente e sovrano. Il Consiglio di Sicurezza ritiene che la situazione non debba essere riconosciuta e che ci si debba attestare su una posizione di isolamento giuridico di questo Stato. Con questo Stato non si dovrebbe entrare in rapporti simili a quelli che sussistono normalmente fra enti soggetti del diritto internazionale. La situazione si può definire come quella di un territorio occupato da una autorità o potenza straniera. Un territorio illegittimamente sottratto allo Stato, cui compete la sovranità; questo sulla base dei trattati che presiedono alla nascita dello Stato cipriota e sottoposta ad una autorità che non ha titolo per esercitare questa sua posizione sovrastante e che, quindi, va contrastata non con la forza ma fronteggiata giuridicamente, disconoscendone l’esistenza come soggetto internazionale che illecitamente pretende di avere.
Questo è il quadro giuridico che emerge dalla considerazione delle prese di posizione successive a questi atteggiamenti assunti dalla comunità turco – cipriota, raggruppatosi nella parte nord dell’isola e che è stata eseguita in pratica dall’intera comunità internazionale per la ragione che se si prescinde dal riconoscimento abbastanza ovvio della Turchia medesima come Stato indipendente e sovrano. La repubblica turco – cipriota è stata riconosciuta dalla Turchia, ma questo è ovvio, essendo stata la Turchia l’artefice di questa situazione, non vi sono altri riconoscimenti.
Si è parlato di qualche disposizione a riconoscere, ad esempio, da parte del Pakistan, in realtà non risulta esserci stato mai un riconoscimento della nuova entità come Stato sovrano.
Il riconoscimento è largamente praticato nelle relazioni internazionali come atto politico cioè a dire come atto che manifesta, appunto, l’intenzione degli Stati preesistenti di allacciare i rapporti diplomatici con lo Stato di nuova formazione, ma anche come strumento di accertamento della situazione che si è venuta a creare.
Nel diritto internazionale, non esistendo un’autorità sovraordinata che possa per tutti, a nome di tutti, accertare che un determinato fatto riveste una certa qualità giuridica nella specie che si è in presenza di un vero e proprio Stato-sovrano e indipendente; quest’accertamento è rimesso agli stessi Stati che compongono la comunità internazionale, non è accentrato l’accertamento ma è diffuso nell’ambito della comunità e, quindi, il riconoscimento finisce con l’assumere anche questa valenza di accertamento. Negare l’accertamento significa non soltanto manifestare una volontà di non allacciare i rapporti come soggetti paritari – secondo le linee comuni delle relazioni internazionali -, ma sta ad indicare anche la constatazione che non ci sono i presupposti affinché si possa parlare di uno Stato nel senso del diritto internazionale. Quando una situazione è generalizzata, diviene una situazione che pesa, in maniera evidente, nello ambito della comunità internazionale.
Di fronte a questa situazione, poc’anzi descritta, qual è la prospettiva che si delinea? Le Nazioni Unite, attraverso il Segretario Generale, questa volta, sono riuscite in effetti a porre in atto un piano molto complesso e articolato, questo global settlement della questione cipriota. È un imponente corpus normativo, la cui complessità evidentemente è già un ostacolo alla conoscenza. Questa è una delle ragioni per cui – e qui ci si interroga sulle ragioni del veto russo – la Russia ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza, al fine di motivare il suo veto, che è stato l’unico voto contrario in seno ai quindici che formano il Consiglio di Sicurezza, che “…ebbene, che ci sia tempo adeguato per una conoscenza nei contenuti di questo complesso normativo, che si possa avere il tempo della debita riflessione; che non si sia sotto l’influenza dell’autorità del Consiglio di Sicurezza; che coloro che vanno a votare il referendum non sentano sopra di sé il peso dell’autorità del organo principale delle Nazioni Unite, il Consiglio; non lo facciano perché viene considerato un qualcosa che viene dall’esterno, perché lo avvertono come una loro libera scelta, quindi, rispetto che si deve alla volontà delle scelte, all’autonomia di valutazione di chi va a votare per situazioni di questo genere”.
La ragione tecnica, che è quella che era stata diffusa maggiormente, è costituita dal fatto che si prevede accanto a quest’applicazione di tutte queste norme la sostituzione dell’attuale forza che realizza l’operazione di peace-keeping attualmente, che è quella informata ai principi del 1964 quando venne creata questa forza di peace-keeping a Cipro. Si sostituisce con una forza di peace-keeping con compiti molto articolati sui quali la Russia vuole riflettere per la ragione che si tratta di una nuova figura, di una caratterizzazione diversa di operazione di peace-keeping che potrebbe poi servire da modello anche in altre situazioni e, dunque, reclama un diritto di riflessione sulla impostazione e l’articolazione di questa operazione, sostitutiva di quella esistente proprio in funzione di una serie di nuovi compiti che vengono attribuiti.
Il Consiglio di Sicurezza, a causa del veto sovietico, motivato in questa maniera, non ha approvato l’opera portata a compimento del Segretario generale e rispetto a cui, d’altra parte, c’erano state già delle prese di distanza da parte delle stesse comunità interessate, perché nell’ambito della comunità turco-cipriota, come è ben noto, il presidente è uno che dice “no” a tutto, per cui la proposta di referendum, che è pure passata con una larga maggioranza nel settore turco-cipriota. Questo perché portatore fondamentale dell’idea della spartizione di una unità indipendente, cioè non si accetta da quel punto di vista neppure l’idea di una federazione con le larghissime autonomie che risultano da questo quadro normativo, che sta ad indicare, praticamente, che poi l’unità esiste solo per la ragione che la repubblica di Cipro parli con una sola voce nelle relazioni internazionali e possa in ipotesi di necessità difendere unitariamente le sue frontiere contro interventi militari esterni o partecipare in maniera unita ad eventuali operazioni militari che fossero decisi – per esempio – nell’ambito del Consiglio di Sicurezza, ma, poi, il resto – certo vi è anche il profilo della cittadinanza unica – sono le singole entità che fruiscono dei poteri sovrani e, quindi, c’è un’autonomia che è apprezzabile come rispettosa di quei principi di quel regolamento politico che da sempre il Consiglio di Sicurezza ha elaborato servendosi, d’altra parte, di scelte delle parti che già figuravano nei trattati del 1960.
L’idea del carattere bi-comunitario dal punto di vista politico, per esempio, l’idea del carattere bi-zonale dal punto di vista territoriale sono dei principi che l’idea che si dovesse assolutamente escludere la possibilità di secessione e quella di divisione o partizione dell’isola, e così via; questi sono elementi di indirizzo politico che sono stati ripetutamente enunciati dal Consiglio di Sicurezza che costituiscono i motivi ispiratori fondamentali della soluzione complessiva del problema cipriota, ma fermi questi principi, che sono la base della composizione del contrasto fra le comunità e, quindi, la creazione di un modus vivendi reciprocamente accettabile tra le stesse, i poteri sovrani di applicazione quotidiana e direttamente rilevanti sono poteri che le due comunità esercitano sulla base di rispettive costituzioni all’interno di questo quadro federale e che realizzano un’autonomia critica.
Volendo finire ad una valutazione conclusiva, trovo che anche se l’esito del referendum non è stato confortante dal punto di vista della conclusione della vicenda nel senso del superamento del contrasto e, quindi, della nascita di uno Stato federale con le caratteristiche che risultano da questi regolamenti, tuttavia, questo esito registra un passo avanti di non trascurabile portata per il fatto proprio che esso è stato approvato con una maggioranza rilevante – il 64% - dalla comunità turco-cipriota, sebbene approvare questo referendum significa abbandonare le idee di autonomia radicale e lo completa e, quindi, indipendenza che la comunità turca ha manifestato attraverso la proclamazione di uno Stato indipendente come la repubblica turco di Cipro del Nord ed essere entrati nell’ordine di idee dell’appartenenza di un’entità federale con larga autonomia.
Le disposizioni, senza entrare nel dettaglio, sono certamente favorevoli ad una considerazione di piena autonomia della comunità turco-cipriota, tenuto conto anche del rapporto numerico nella popolazione dell’una e dell’altra e ci sono poteri appunto di veto che fanno si che non si possa decidere unitariamente se non si è d’accordo a livello delle due comunità.
È molto importante la possibilità di bloccare una decisione se non viene condivisa a livello anche della comunità minore rispetto alla comunità maggiore cioè il principio di maggioranza non può giocare. Da questo punto di vista se ne avvantaggia la comunità minore, altrimenti subirebbe la prevalenza della comunità numericamente maggiore, ma, malgrado ciò, vi è una parte della popolazione turco-cipriota, che è velata da quel 35% che non accetta di far parte di una entità federale e che, quindi, continua a essere attestato, evidentemente, sull’idea di una indipendenza di uno Stato diverso della repubblica di Cipro. Il fatto che si sia determinata una maggioranza consistente nel senso dell’abbandono dell’idea del genere e, pertanto, dell’accettazione dell’idea invece di far parte di un’unica entità statale di tipo federale, rappresenta un passo in avanti nella direzione della soluzione del problema, mentre le resistenze da parte greco – cipriota sembra che siano più legata proprio a quei fattori che emergevano nella posizione sovietica contraria ad approvare al momento un piano, questo non significa che la Russia escluda la possibilità in futuro di fare cadere questo veto e di consentire anch’essa all’approvazione di un regolamento politico sulle basi che risultano da quegli atti da parte della comunità greco- cipriota pare che le resistenze siano più legate proprio al mancato approfondimento, per cui non vi è stato il tempo nei termini della soluzione di singoli questioni rispetto a cui non deve essere un salto nel buio approvare un regolamento. È comprensibile che vi sia un’aspettativa di tempo utile all’approfondimento della situazione, eventualmente anche a suggerire qualche ritocco, modifica più vicina alla realtà delle esigenze oggettive che le parti interessate sono collocate meglio di qualunque altro nel prospettare.
Si può, infine, esprimere un ottimismo circa il superamento allo stato attuale dell’impasse e, quindi, circa la tanto sospirata soluzione politica che dovrebbe comportare il riconoscimento da tutti, da entrambe le comunità di cui l’unico Stato – la repubblica di Cipro -, articolata in maniera federale con le autonomie di notevole spessore che questi atti assicurano ad entrambe le comunità.


Giuseppe Paccione

LE LACUNE DELLA RISOLUZIONE 1701 ADOTTATA DAL CONSIGLIO

LE LACUNE DELLA RISOLUZIONE 1701 ADOTTATA DAL CONSIGLIO
DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE IL 12 AGOSTO DEL 2006 SULLA
CESSAZIONE DEL CONFLITTO LIBANO-ISRAELIANO


Introduzione

Il 12 luglio del 2006 scoppiava un nuovo conflitto arabo-israeliano, la sesta, dopo la proclamazione dello Stato di Israele, tenuto conto della guerra larvata che ha luogo dopo anni, malgrado la conclusione di vari trattati di pace tra israeliani e palestinesi nei territori occupati o in quelli che sono stati affidati all’ANP.
Alle origini di questo nuovo conflitto si trova un’imboscata, organizzata dal gruppo degli Hezbollah, cagionando la morte di sei soldati israeliani e il sequestro di due. Invocando la liberazione dei suoi prigionieri, il governo di Israele avviava un’operazione di grande portata contro il Libano, mercé forze aeree e marine, di-chiarando il suo diritto a difendersi.
Ma questa sesta guerra è molto differente dalle precedenti. Prima di tutto,non ha messo alle prese, come accadeva in altre occasioni, uno o più eserciti regolari arabi da una parte, e l’esercito israeliano, dall’altra. I belligeranti, da un lato, era rap-presentato dall’esercito regolare di Israele, considerato uno dei più forti e meglio equipaggiati al mondo, e, dall’altro, il movimento di resistenza libanese, i cosiddetti Hezbollah, presente nel sud del Libano.
Successivamente, questa sesta guerra non ha avuto solamente per campo di battaglia il territorio di uno Stato arabo, il Libano. Dei lembi territoriali dello Stato di Israele, ubicati a nord dello Stato israeliano, hanno subito duri attacchi missilistici da parte degli Hezbollah con danni materiali ed umani, come il villaggio di Haifa, che si trova sulla frontiera israelo-libanese. Infine, questa guerra è durata per più di un mese intero, cagionando vittime, feriti e sfollati in violazione delle norme del diritto internazionale umanitario, senza che la comunità internazionale avesse agito e, primariamente, senza che l’organo al quale incombe la re-sponsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il Consiglio di Sicurezza, fosse intervenuta per un raggiungimento di un accordo alla risoluzione inerente la cessazione delle ostilità.
L’accordo, in effetti, concluso in ambito del Consiglio di Sicurezza, è stato tardivo e ciò non è che al 30° giorno del conflitto, dopo molte settimane di negoziati, che si è giunti all’adozione, all’unanimità di tutti e quindici i membri, la risoluzione n.°1701 del 12 agosto 2006, voluta dalla Danimarca, dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Grecia, dalla Repubblica Slovacca e dal Regno Unito, in cui si menziona per un cessate il fuoco immediato, fondato sulla cessazione immediata da parte degli Hezbollah di ogni attacco e la cessazione immediata delle forze militari israeliane di ogni offensiva militare. Questa risoluzione non si contenta in realtà di richiamare la cessazione delle ostilità, ma tenta di risolvere, così, un certo numero di problemi tra il Libano e Israele e di gettare le fondamenta per una soluzione a lungo termine del conflitto.
Subito dopo l’adozione della risoluzione n.° 1701, sia il Libano che Israele hanno visto, malgrado le critiche e le riserve, il riconoscimento delle loro tesi. La risoluzione, infatti, si caratterizza per il suo equilibrismo e tenta di soddisfare contemporanea-mente i due protagonisti della crisi internazionale.
Ma anche se la risoluzione non ha soddisfatto del tutto i due belligeranti, entrambi hanno accettato di renderla concreta. È d’uopo, tuttavia, notare che le discussioni informali nel Consiglio di Sicurezza, così come le prime bozze di risoluzione elaborate dai francesi e dagli statunitensi, erano state nettamente a favore di Israele, ignorando la gran parte delle rivendicazioni libanesi, presentate alla conferenza di Roma il 26 luglio 2006 dal Presidente del Libano Foued Siniora . questo non è che dopo l’entrata in lizza dei rappresentanti delle Lega degli Stati arabi, inviati negli Stati Uniti dal Consiglio dell’Organizzazione Panaraba riunitosi nella capitale libanese, che il dare le carte ha mutato e che una certa opposizione franco-statunitense ha portato alla redazione di una nuova bozza di risoluzione molto equilibrato e completo tanto da far raggiungere per la sua approvazione l’unanimità.
La risoluzione n.°1701, il cui fondamento pare essere ambiguo, riporta l’attenzione per i suoi apporti e le sue insufficienze. Preconizza un cessate il fuoco senza, tuttavia, chiudere la porta alla ripresa delle ostilità. Prevede il ritiro delle forze militari israeliane dal Libano in cambio di uno spiegamento dell’esercito libanese e del-l’UNIFIL. Essa trasforma il mandato dell’UNIFIL. Nel contempo, la risoluzione lascia numerose questioni in sospeso, di cui, è noto, la problematica dei prigionieri libanesi detenuti nelle prigioni israeliane o ancora la cruciale questione della sovranità sulle terre di Shebeaa.


I fondamenti della risoluzione n.° 1701 approvata dal Consiglio di Sicurezza
I lavori del Consiglio di Sicurezza si sono orientati inizialmente nella direzione di una risoluzione, sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, conferendo ad una forza multinazionale delle prerogative di carattere coercitivo nei riguardi degli Hezbollah. In un primo momento, la Francia e gli Stati Uniti si erano messi d’accordo su questo punto. Non vi era tra loro che un solo punto di divergenza relativo al calendario dell’intervento del Consiglio di Sicurezza. Sebbene gli Stati Uniti erano a favore per un intervento tardivo del Consiglio di Sicurezza e asserivano che il cessate il fuoco non costituiva un’urgenza, ma solo per dare più tempo ad Israele di raggiungere e portare a termine i suo obiettivi militari, da voler la disgregazione del gruppo Hezbollah. La Francia, al contrario, sollecitava per un intervento del Consiglio di Sicurezza vitale e pronosticava un cessate il fuoco completo e immediato.
Questo primo approccio franco-statunitense è stato oggetto di un’aspra protesta da parte delle autorità libanesi. Anche la Russia ha manifestato la non volontà di votare a favore di una risoluzione, che non aveva alcuna possibilità di essere resa concreta e che non faceva che consacrare la tesi del governo di Tel Aviv.
Con ulteriori negoziati, un nuovo approccio veniva adottato e un accordo generale ha potuto farsi su quello che sarà la risoluzione n.° 1701. Ciò non contiene nessun ri-ferimento ad una disposizione precisa della Carta delle Nazioni Unite. Al contrario, menziona tutte le precedenti risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza inerente il Libano.

L’assenza di riferimento alla Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite
Il Consiglio di Sicurezza dispone di un potere discrezionale di qualificazione, ma nulla l’obbliga a posizionare la sua azione in un quadro formale preciso. Come le numerose risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza, la risoluzione n.° 1701 del 2006 non precisa il fondamento costituzionale dell’intervento del Consiglio di Sicurezza. È semplicemente indicato alla fine del preambolo della risoluzione, che il Consiglio di Sicurezza, consapevole della propria responsabilità che incombe su di esso di favorire la garanzia per un cessate il fuoco permanente ed una soluzione di lungo termine per il conflitto, considerava che la situazione in Libano rappresentava una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale.
Questo modo di procedere del Consiglio di Sicurezza, che consiste nel determinare una situazione in cui la pace e la sicurezza internazionale sono minacciate senza, pertanto, mirare al capitolo o all’articolo della Carta, sulla base del quale si poggia la sua com-petenza. È molto frequente, dopo tutto, nella prassi del Consiglio di Sicurezza prima della Guerra Fredda che nella prassi del dopo Guerra Fredda sino ad oggi. In questo ambito, la pratica del Consiglio di Sicurezza è ampiamente empirica e flessibile. Si tratta per esso di una tecnica molto comoda per evitare la paralisi che potrebbe risultare da una grande precisione referenziale, una tecnica che lascia la porta aperta all’interpretazione e all’adattamento dell’azione in funzione delle circostanze, tanto che impossibile tirare un senso unico alla pratica. Si tratta di giudicare e di valutare caso per caso.
Nella vicenda della guerra del Libano, le discussioni, che hanno preceduto l’adozione della risoluzione n.° 1701, si collocano nel quadro del capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite.
Durante i negoziati preliminari, il Libano aveva nettamente sottolineato la sua opposizione ad ogni risoluzione connessa al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Molti membri del Consiglio di Sicurezza, tra cui la Russia e la Cina, che si sono concertate su questa posizione, da cui il cambiamento di avvicinamento franco-americano. Malgrado ciò, la risoluzione usa i termini dell’articolo 39 – secondo cui il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articolo 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale – e non quello dell’articolo 37 paragrafo 2 – secondo cui se il Consiglio di Sicurezza ritiene che la continuazione della controversia sia in fatto suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, esso decide se agire a norma dell’articolo 36 o raccomandare quella soluzione che ritenga adeguata – , utilizzando il termine situazione e non controversia e qualificando questa situazione di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e non di situazioni di cui il prolungamento minaccia il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ricorrendo a questa qualificazione, il Consiglio di Sicurezza non ha voluto inquadrarsi nel quadro dell’articolo 39, ma pare che abbia cercato nell’insistere sul carattere attuale e immediato della minaccia e a dimostrare che la minaccia non è meramente virtuale o eventuale.
Dall’analisi giuridica, la risoluzione n.° 1701 sembra essere una risoluzione a doppia distensione. La maggior parte delle disposizioni si riconnettono certamente al capitolo VI. Se si osserva il paragrafo 15°, si nota come non si impongono delle sanzioni tra quelle enunciate nel capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, e cioè un embargo sulle armi sebbene il Consiglio di Sicurezza decideva, inoltre, che ogni Stato membro deve adottare le misure necessarie al fine di evitare, a propri cittadini, sul suo territorio,o usando navi battenti bandiera del Paese o velivoli, la vendita o la fornitura ad alcuna entità o individuo in Libano di armamenti e materiali di alcun genere, incluse armi e munizioni, veicoli militari ed equipaggiamenti paramilitari e parti di ricambio per i suddetti, siano o no prodotti nei loro territori, e la fornitura a nessuna entità o individuo in Libano o di qualsiasi addestramento o qualsiasi tipo di sostegno per la fornitura, la produzione, la manutenzione o l'uso di quanto citato nel comma (a), con l'eccezione che questi divieti non si applicano ad armi, materiali, addestramento e assistenza autorizzata dal governo del Libano o dall’UNIFIL come previsto nel paragrafo 11.
Ma se la risoluzione n.° 1701 non fa riferimento ad alcuni articoli della Carta delle Nazioni Unite, si pone nella continuità di precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sul Libano.

Le precedenti risoluzioni sulla questione libanese
Una parte del lembo territoriale libanese si trova sotto l’occupazione israeliana, dal 1978 sino ad oggi, nonostante le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, di cui nota è la risoluzione n.° 425, adottata il 19 marzo del 1978, in cui l’organo principale per il man-tenimento della pace e della sicurezza internazionale si appellava ad Israele perché interrompesse ogni attività militare contro l’integrità territoriale del Libano e di ritirare le sue forze militari dal territorio libanese, e la risoluzione n.° 426 dello stesso anno che diede avvio alla costituzione di una forza multinazionale di pace, l’UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon).
L’integrità territoriale del Libano è stato di sovente soggetto a violazioni da parte di Israele il 6 giugno 1982. Si rammenta l’occupazione delle truppe israeliane in Libano, assediando la capitale Beirut, malgrado la presenza dell’UNIFIL che nulla poté fare dinanzi a questa violazione. Del resto, le forze israeliane non hanno mai abbandonato il territorio libanese. Solamente due parziali ritirate dei soldati israeliani ebbero luogo, il primo nel 1978 e il secondo nel 2000. Di questo fatto, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza non ha mai ricevuto piena applicazione e sono state a lungo ignorate da Israele.
Con la nuova crisi dell’estate del 2006, le risoluzioni n.°425 e 426 del 1978 e la 520 del 1982 si sono nuovamente trovate all’ordine del giorno. In effetti,la risoluzione n.° 1701 non ha mancato nel suo preambolo di farvi riferimento, marcando dalla sorte la relazione causa-effetto esistente fra la non applicazione di queste risoluzioni e la si-tuazione creata il 12 luglio del 2006. Un’applicazione totale e rigorosa delle risoluzioni 425 e 520, in cui si sottolinea il ritiro delle truppe israeliane e il rispetto dell’integrità e dell’indipendenza del Libano, avrebbe potuto evitare a questo paese le angosce delle guerre del 1982 e del 2006, tanto che lo stato di tensione e di violenza persistente che ha sempre regnato tra Israele e il Libano.
La risoluzione n.° 1701 evidenzia anche risoluzioni più attuali inerente il Libano, quali la risoluzione n.° 1559 del 2004, n.° 1665 e 1680 del 2006. Queste risoluzioni si connettono, come è noto, alla posizione degli Hezbollah nel Libano e la necessità per il governo di Beirut di estendere la sua autorità su tutto il territorio libanese. Nella risoluzione n.° 1559, che costituisce la prima della nuova serie di risoluzioni, ap-provate dal Consiglio di Sicurezza, relative il Libano, in cui viene sottolineato la pro-fonda preoccupazione del Consiglio di Sicurezza sulla continua presenza in Libano di milizie armate, che inibivano il governo di Beirut di esercitare pienamente la sua sovranità su tutto il territorio libanese, riaffermando quanto è fondamentale che il controllo esercitato da Beirut si estenda sulla totalità del Paese e chiedeva che tutte le milizie libanesi e non andavano sciolte e disarmate. Dalle milizie libanesi e non, il Consiglio di Sicurezza si esprimeva a titolo personale senza nominare il gruppo degli Hezbollah.
Nelle successive risoluzioni, la n.° 1655 del 31 gennaio 2006 e la n.° 1680 del 17 maggio del 2006, il Consiglio di Sicurezza non faceva che reiterare la propria posizione evidenziando il fatto che in queste risoluzioni gli Hezbollah è nominatamente citato. Nella risoluzione n.°1655, il Consiglio di Sicurezza manifesta(va) la sua preoc-cupazione per le tensioni e le violenze che persistevano lungo la linea blu, compreso le ostilità di cui gli Hezbollah hanno preso l’iniziativa nel novembre del 2005 e quelle scoppiate dal lancio di razzi contro Israele dal territorio libanese nel dicembre del 2005, che hanno dato prova, ancora una volta, che la situazione dimora instabile e precaria ed hanno nuovamente sottolineato l’urgenza affinché il governo di Beirut estenda del tutto la propria autorità ed eserciti pienamente il suo controllo sull’uso della forza di cui ha il monopolio in tutto il territorio.
Gli avvenimenti descritti in questo passaggio si avvicinano a quelli dell’estate del 2006, a parte che l’attività degli Hezbollah non ha dato luogo ad una cattura di soldati e ad una reazione di portata di Israele.
Così, a prescindere dalla congiuntura particolare che è stata dalla sua origine, la ri-soluzione n.° 1701 non rappresenta che un occhiello di una catena di risoluzioni sull’indipendenza del Libano e il rivestimento da parte del governo centrale dell’in-sieme di attributi della sua sovranità.

I termini per una soluzione pacifica della controversia libano-isrealiana
Al di là del suo aspetto congiunturale che si appella ad una cessazione immediata del-le ostilità, la risoluzione n.° 1701 porta a spostare l’attenzione su due aspetti: la raccomandazione dei termini di una soluzione pacifica della controversia tra Libano e Israele, da un lato, e, dall’altro, il rafforzamento dell’UNIFIL, dall’altro.
Il Consiglio di Sicurezza, in virtù dell’articolo 37 paragrafo 2, se ritiene che il perdurare della controversia sia in fatto suscettibile di porre in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, può adottare la decisione se agire a norma dell’articolo 36 della Carta delle Nazioni Unite o raccomandare una soluzione che consideri adeguata.
Ora, sino ai primi di agosto del 2006, il conflitto tra Israele e il Libano non è mai stato considerato in tutta la sua ampiezza. Le varie risoluzioni, adottate dal Consiglio di Sicurezza, di cui note la n.° 425 e 426 del 1978, si sono sempre limitate di trattare la crisi del momento e non hanno mai considerato una vera terapia di fondo, consistente nella raccomandazione dei termini di una soluzione.
Nella risoluzione n.° 1701, il Consiglio di Sicurezza, dopo aver affermato, nel preambolo, la sua consapevolezza della responsabilità che gli incombe di aiutare a garantire un cessate il fuoco duraturo ed una soluzione di lungo termine al conflitto, consacra il paragrafo 8 ai termini di questa soluzione. Questi ultimi si fondano su sei principi:
Prima di tutto, le due parti sono invitate ad osservare un totale rispetto per la linea blu per entrambe le parti. Quest’ultima costituisce una linea di demar-cazione e non assolutamente una frontiera definitiva, che è stata determinata dall’inviato speciale delle Nazioni Unite e la sua squadra di car-tografi, a causa del ritiro israeliano dal sud del sud del Libano nel 2000, affinché questo ritiro sia dichiarato conforme alla risoluzione n.° 425 del 1978.
Successivamente, sia Israele che il Libano devono adottare un dispositivo di sicurezza che prevengano la ripresa delle ostilità, che preveda l’istituzione, nella zona compresa tra la linea blu e il fiume Litani, di un’area priva di per-sonale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell’esercito libanese e delle forze dell’UNIFIL. Questo 2° principio rinvia alla spinosa questione del disarmo degli Hezbollah, problematica che sarà ripresa nel 3° principio e di cui la sua messa in atto non pare semplice.
Il Consiglio di Sicurezza preconizza la piena attuazione di ogni regolamento previsto dagli accordi di Taif e dalla risoluzione n.° 1559 del 2004 e n.° 1680 del 2006, che obbligano il disarmo di tutti i gruppi armati presenti sul territorio libanese, in modo tale che non possono esserci armi o autorità in Libano se non quelle dello Stato libanese, come sancito dall’esecutivo il 27 luglio del 2006. Questo principio s’iscrive nel quadro dell’esigenza – enunciato negli accordi di Taif e reiterato dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n.° 1559 del 2004 e n.° 1680 del 2006 – dell’estensione del controllo esercitato dal governo di Beirut su tutto il suo territorio. In questo quadro, il governo libanese aveva già annunciato nell’agosto del 2006 la sua decisione a dispiegare circa 15.000 uomini nel sud del Libano in concomitanza con il ritiro dell’esercito israeliano oltre la linea blu.
Il quarto principio consiste nella eliminazione di tutte le forze straniere dal Libano che non abbiano l’autorizzazione dal governo di Beirut. Questa misura, che non è altro che una conseguenza logica della precedente, si rivolge alle truppe israeliane che hanno oltrepassato la linea blu dopo il 12 luglio 2006, quasi dopo il ritiro delle forze siriane, in applicazione della risoluzione n.° 1559 del 2004, queste sono le uniche forze straniere in Libano presenti senza il con-senso del governo libanese.
Altro elemento o principio dei termini della soluzione riguarda la fornitura di armi e di materiali connessi ad altre forze, anziché le forze regolari del Libano. La raccomandazione è rivolta a tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite, ma punta implicitamente a due Paesi accusati per gli uni o presunti per gli altri di essere i fornitori dell’arsenale di armi agli Hezbollah, la Siria e l’Iran. Questa raccomandazione va connessa con le altre disposizioni della risoluzione n.° 1701. È così, secondo quanto sancito nel paragrafo 14 della risoluzione, il Consiglio di Sicurezza chiedeva al governo di Beirut di controllare le sue frontiere ed ogni altro varco d’accesso al fine di impedire che armi o materiali venissero importati in Libano, senza il suo consenso. Questa missione di controllo è ugualmente affidata all’UNIFIL, incaricata di assistere il governo libanese dietro sua richiesta. Risulta in questo passaggio che l’UNIFIL non possa incaricarsi di questa missione, non avendone alcuna autorità. Ciò non può far sì che su richiesta espressa del governo di Beirut. La missione dell’UNIFIL, di conseguenza non è una missione di polizia internazionale, fondata sul capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ma meramente una operazione classica di mantenimento della pace. Nello stesso ordine di idee, va segnalato che la risoluzione n.° 1701 include nel suo paragrafo 15 un embargo sulle armi e che tutto porta a credere che a questo proposito il Consiglio di Sicurezza agisca sulla base del capitolo VII.
Infine, l’ultimo elemento ovvero l’ultimo principio del piano proposto dal Consiglio di Sicurezza consiste nella notifica alle Nazioni Unite delle mappe delle mine ubicate sul territorio libanese, che siano ancora in possesso di Israele. Si tratta, in questo caso, di una misura destinata a rendere più semplice il lavoro degli sminatori per preservare le vite umane dallo scoppie di questi marchingegni.
Il piano in 6 punti di soluzione a lungo termine, contenuto nella risoluzione n.° 1701, è stato giudicato da tutti i protagonisti, ivi il Segretario Generale delle Nazioni Unite, arduo da porre in atto senza l’esistenza di una vera volontà delle due parti a risolvere la controversia e, soprattutto, senza l’impegno fermo e de-terminato della comunità internazionale. Per questo, la risoluzione n.° 1701 trasforma l’UNIFIL, stazionata nell’area dal 1978 e che è stata superata dagli eventi, in forza consistente ed efficace dotata di un mandato chiaro e preciso.



Il rafforzamento dell’UNIFIL
Costituita nel 1978 mercé la risoluzione n.° 426, l’ United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL) aveva un mandato classico, semplice e ridotto ad una mera forza di mantenimento della pace della prima generazione.
Nel suo mandato non vi era né componente umanitaria, né missione di con-solidazione della pace, né ancor meno una missione coercitiva. In più, e per la pri-ma volta nella storia delle operazioni di peace-keeping, la nuova UNIFIL è dotata di una componente navale.
All’origine aveva un ruolo di interposizione, doveva accertare il ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano, ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e aiutare il governo libanese ad assicurare il ristabilimento della sua autorità effettiva nella regione.
Dopo la crisi dell’estate del 2006, il Consiglio di Sicurezza decideva di completare e rinforzare gli effettivi, il materiale e il campo di operazioni della forza e affidare alla forza UNIFIL, oltre a portare a termine il suo mandato d’origine, delineato nelle risoluzioni n.° 425 e n.° 426 del 1978, i seguenti compiti come la sorveglianza della cessazione delle ostilità, l’assistenza e il sostegno a favore delle forze libanesi nel loro dispiegamento nel sud, compresa la zona di confine della linea blu, mentre Israele procede nel ritirare le sue truppe armate dal lembo territoriale libanese, il coordinamento delle proprie attività con il governo libanese ed israeliano, l’este-nsione della propria assistenza al fine di contribuire a garantire l’accesso della popolazione civile agli aiuti umanitari e il ritorno degli sfollati,, l’assistenza alle forze armate libanesi in operazioni mirate alla definizione dell’area e l’assistenza al governo libanese, se vi è il suo consenso.
Attraverso la risoluzione n.° 1701, il Consiglio di Sicurezza, in concerto con il governo di Beirut, operando sulla base di una richiesta delle autorità del Libano di inviare una forza internazionale al fine di assisterlo nell’esercizio della sua autorità su tutto il territorio, viene data l’autorizzazione all’UNIFIL di prendere ogni azione necessaria nelle zone in cui tutte le forze sono presenti e nelle loro capacità, a garantire che quest’area non si trasformi come luogo di operazioni ostili di alcun genere, a resistere a tentativi di ostacolare con l’impiego della forza dallo svolgere i suoi compiti come da mandato del Consiglio di Sicurezza, e a proteggere il personale delle nazioni Unite, le strutture, le postazioni e gli equipaggiamenti, a garantire la sicurezza e la libertà di movimento del personale, che lavorano per le Nazioni Unite, gli operatori umanitari e, senza pregiudicare la responsabilità del governo libanese, a proteggere i civili da minacce contingenti di violenza fisica.
La risoluzione n.° 1701 istituiva una nuova UNIFIL che, nel testo non ha più a che vedere con l’UNIFIL versione 1978, né per l’ampiezza di forze di cui il dispiegamento è autorizzato, né per la logistica messa a disposizione, né per l’estensione del mandato.
Tra la forza armata libanese di 15000 uomini e l’UNIFIL di u numero equivalente di soldati della pace, questi sommati raggiungono i 30000 uomini, che sono stati incaricati di assicurare l’applicazione della risoluzione n.° 1701. Nel suo rapporto del 18 agosto del 2006, sull’applicazione della risoluzione, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha asserito che il rafforzamento completo dell’UNIFIL, pre-visto al paragrafo 11 della risoluzione n.°1701, può essere perfezionato nei novanta giorni successivi l’adozione della risoluzione.
Nei fatti, la creazione dell’UNIFIL è stata impegnativa e taluni Stati, tra cui la Francia, dopo aver promesso una partecipazione importante si sono ritirati. E così il presidente della Repubblica di Francia, dopo molte esitazioni, annunciava che il suo Paese non potrà disporre che più di 200 soldati, chiedendo garanzie sulla mis-sione e i mezzi dell’UNIFIL.
In seguito, durante una trasmissione televisiva, il capo di Stato francese ha corretto il tiro. Assicurando di aver ottenuto dalle Nazioni Unite, da Israele e dal Libano le dovute chiarificazioni sulla catena di comando e sulle regole di ingaggio della forza per creare le condizioni di una operazione sicura ed efficace, ha propo-sto l’invio di 1600 soldati in più sul campo.
Per trovare una soluzione all’impasse della composizione dell’UNIFIL, una riu-nione ministeriale dei 25 membri dell’Unione Europea, a cui ha preso parte il Se-gretario Generale delle Nazioni Unite, è stata necessaria. Durante questo vertice, l’Unione Europea si è accollata le proprie responsabilità impegnandosi a fornire almeno la metà degli effettivi di mantenimento della pace in Libano.
L’annuncio, da parte del governo italiano, che era pronta ad inviare sino a 3000 uomini nel sud del Libano, ha fatto seguito alla decisione della Francia di impegnare 1600 soldati, portando il numero di soldati francesi a 2000. Da quel momento, l’Italia e la Francia hanno incitato altri Paesi come la Polonia e la Spagna ad annunciare ciascuno il proprio invio di un battaglione. Per parte sua, il Belgio ha promesso un contingente di 400 soldati e la Finlandia di 250 uomini. Altri Stati membri, come la Gran Bretagna che, a causa del loro coinvolgimento nella guerra in Iraq, non vuole dispiegare proprie truppe in Libano, o come la Germania che, per ragioni storiche, non poteva impegnarsi non prima di un’auto-rizzazione espressa del Bundestag (parlamento tedesco), si sono impegnati a fornire un sostegno logistico. Ma l’Europa non sarà il solo fornitore di contingenti, ma anche Paesi musulmani stanno dando il loro contributo alla forza.
Respingendo l’argomento del presidente francese, il quale aveva stimato tutto ad un fatto eccessivo la cifra di 15000 uomini in un territorio che è grande come la metà di un dipartimento francese, il Segretario Generale delle Nazioni Unite si è assunto la responsabilità di rammentare che la cifra di 15000 uomini è una cifra massimale, prevista dalla risoluzione n.° 1701.
Grazie agli sforzi ostentati dal Segretario Generale e la volontà espressa di alcuni Stati, come pure l’ottimo rispetto del cessate il fuoco, l’UNIFIL è giunta ad essere operativa. La sua posizione sul campo, come pure nelle acque territoriali libanesi, ha ottenuto un risultato tangibile, che consiste nella rimozione del blocco aereo e navale imposto al Libano dallo scoppio delle ostilità del luglio del 2000.
In effetti, il sei e l’otto settembre del 2006, il blocco aereo, prima, e marittimo, poi, furono tolti dopo che il comando dell’UNIFIL aveva evidenziato che una forza internazionale navale, dispiegata temporaneamente nelle acque territoriali libanesi, era operativa al fine di garantire la frontiera marittima libanese. Questa forza marittima, guidata dall’Italia, è composta da unità provenienti dalla Fran-cia, dalla Grecia, dall’Italia e dalla Gran Bretagna. Questa forza navale transitoria sarà rimpiazzata da una forza tedesca, della quale il parlamento ha dato il via libera. Malgrado questo successo incontestabile, la risoluzione n.° 1701 soffre di alcune lacune che rischiano di ipotizzare il suo futuro e la sua efficacia.

Le lacune della risoluzione n.° 1701
Non si insisterà mai, in maniera sufficiente, sul fatto che la risoluzione n.° 1701 sia stata approvata o, meglio, abbia visto la luce solo dopo 33 giorni da una guerra che ha cagionato indicibili sofferenze. Oltre a questo carattere tradivo, che ha for-temente portato pregiudizio alla credibilità, già ampiamente intaccata, delle Na-zioni Unite, in modo generale, e del Consiglio di Sicurezza, in modo particolare, come è noto in tutta l’aerea mediorientale, in cui vi sono altri due conflitti in Iraq e in Palestina, dove le vittime innocenti sono le più esposte, e in cui vige un clima di totale impunità e di impotenza della comunità internazionale, la risoluzione n.° 1701 è ricca di lacune e debolezze come, ad esempio, quello di lasciare in sospeso una serie di questioni come l’occupazione delle fattorie di Shebeaa e la respon-sabilità internazionale delle continue violazioni delle norme del diritto inter-nazionale umanitario. In aggiunta, lascia un varco aperto ad una ripresa delle ostilità.
La risoluzione n.° 1701 fa appello alla cessazione immediata da parte di Israele di ogni offensiva militare, ciò che lascia implicitamente campo libero per operazioni difensive.
Ora, il duro attacco delle forze militari israeliane, iniziato il 12 luglio del 2006, è stato giustificato da Israele – sostituito da alcuni altri Stati, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania e la Russia – come azioni di carattere difensivo. Infatti, nel vertice del G8 (è una organizzazione formata dai 7 paesi più indu-strializzati del mondo Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Canada più la Russia), svoltosi a San Pietroburgo nel luglio del 2006, i capi di Stato e di Governo hanno, in modo implicito, ammesso la tesi del governo di Tel Aviv sulla legittima difesa.
Nella Dichiarazione finale sul Medio Oriente, questi hanno delineato la essenzialità che lo Stato di Israele, esercitando il suo diritto di autodifesa, tenga in considerazione le conseguenze strategiche ed umanitarie delle sue operazioni militari, dando prova, dimostrata nello sforzo, di evitare di colpire le vittime tra i civili e i danni alle infrastrutture non militari e di astenersi da ogni atto che potrebbe destabilizzare il governo libanese. Le Potenze industrializzate hanno meramente invitato alla cautela, evitando la condanna degli attacchi perpetrati dalle truppe di Israele, e si sono limitati a deplorare la sproporzione nell’uso della violenza.
Il ricorso al diritto naturale di legittima difesa, enunciato nell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite – secondo cui alcuna disposizione della Carta pregiudica il di-ritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia adottato le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale; le misure prese da membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiu-dicano in alcun modo il potere ed il compito spettanti, secondo il presente Statuto al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale – obbedisce a delle condizioni strette di fondo e di forma che Israele ha puramente e semplicemente trascurato, rispondendo agli attacchi degli Hezbollah. Il Consiglio di Sicurezza, però, si limitava a consacrare implicitamente questa tesi del diritto di legittima difesa ancorandosi soltanto ad una cessazione dell’offensiva.
Dopo l’accettazione della risoluzione n.° 1701, le truppe israeliane hanno continuato la loro offensiva. Le violazioni dello spazio aereo del Libano sono state giornaliere, così pure le incursioni di soldati al di là della linea blu. Il comandante dell’UNIFIL ha osservato una serie di incidenti ed ha rilevato un rafforzamento delle posizioni delle forze di difesa israeliane e delle barriere tecniche. Le forze israeliane, inoltre, hanno continuato a fornire di tutto le proprie forze militari stazionare in Libano e ad assicurarne il cambio. Una successiva e grave violazione del cessate il fuoco è stato riscontrato il 19 agosto del 2006, quando gli israeliano hanno effettuato un raid aereo nella parte orientale del Libano.

La vicenda dell’area delle fattorie di Shebeaa
La risoluzione n.° 1701 ha perduto un’occasione di risolvere una questione che rappresenta un punto cruciale nelle rivendicazioni degli Hezbollah e nella sua deter-minazione a non disarmare.
Si tratta della vicenda dell’area delle fattorie di Shebeaa, occupata dalle truppe israeliane dopo la guerra dei sei giorni del 1967 e non evacuata nel 2000.
Si rammenta che le fattorie di Shebeaa formano una regione da 40 a 100 km quadrati e che comprende 14 fattorie, situate a sud di Shebeaa, un villaggio sui pendii ad ovest del monte Hermon, in prossimità della frontiera tra la Siria, il Libano e Israele. Queste fattorie costituiscono un punto strategico e dispongono di importanti reti idriche. Sono ubicate su delle altitudini ad una altezza che rag-giunge i 1880 metri, ciò che aggiunge un valore strategico. Queste fattorie, un tem-po libanesi durante il mandato francese, vengono progressivamente occupate dall’esercito siriano dal 1957. Israele ha preso il controllo di quest’area durante una dura guerra nel 1967, in cui il Libano non era belligerante. Israele, succes-sivamente, aveva considerato le fattorie come facenti parte integrante dello altopiano del Golan. Durante il suo ritiro dal Libano nel 2000, Israele riteneva che questo territorio non veniva per nulla citato nella risoluzione n.° 425 del 1978.
Il Libano, al contrario, considerava le fattorie di Shebeaa parte integrante del suo territorio e avrebbero dovuto essere evacuate in virtù della risoluzione n.° 425.
Ora, questo non è il punto di vista delle Nazioni Unite che hanno deciso che que-sta area non faceva parte delle zone da evacuare da parte di Israele, nel quadro della risoluzione n.° 425.
Secondo il Segretario Generale delle Nazioni Unite, l’evacuazione di questa area era stata già enunciata nelle risoluzioni n.° 242 del 1967 e n.° 338 del 1973, adot-tate dal Consiglio di Sicurezza. Per le Nazioni Unite le pretese dell’autorità libanesi, nel quadro della risoluzione n.° 425 sulle fattorie di Shebeaa, erano il-legittime. Inoltre, sempre il Segretario Generale, poneva in risalto il fatto che queste frontiere erano già state determinate nel 1923 e che vanno prese in con-siderazione. Il Consiglio di Sicurezza ha interinato il rapporto ed ha stimato, nel giugno del 2000, in seguito al ritiro delle truppe israeliane il mese prima dello stesso anno, che le risoluzioni n.° 425 e n.° 426 del 1978 sono state del tutto applicate.
In seguito alla crisi del 12 luglio del 2006, il primo Ministro libanese, nella sua bozza di risoluzione del conflitto libano-israeliano, proponeva che questa area ve-nisse posta sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite, in attesa che la linea fronta-liera sia delimitata prima del suo ritorno alla sovranità libanese. Il gruppo degli Hezbollah adottavano una difesa analoga a quella del governo di Beirut e giu-stificavano il perseguimento delle proprie attività contro le forze militari israeliane per la contesa dell’area di Shebeaa.
Quanto alla Siria, essa puntualizzava il fatto che l’area di Shebeaa non era affatto citata nella risoluzione n.° 425, ma neppure poteva essere considerata lembo territoriale del Libano. Il Governo di Damasco, durante il summit con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, manifestava il suo totale accordo con il governo del Libano per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche, aggiungendo che era aperto sulla delimitazione della frontiera. Sull’area delle fattorie di Shebeaa, riconosceva del tutto la loro appartenenza al Libano.
La risoluzione n.° 1701, purtroppo, ha lasciato la questione in sospeso. Essa si limita a prendere atto delle proposte fatte nella bozza in sette punti, che con-cernono l’area delle fattorie di Shebeaa, invitando il Segretario Generale delle Nazioni Unite di mettere in atto, in concerto con i partner internazionali e le parti coinvolte, delle proposte per la demarcazione dei confini internazionali del Libano, specialmente in quelle aree in cui il confine è soggetto a controversie, ivi l’area di Shebeaa, e a presentare quelle proposte al Consiglio di Sicurezza (entro i 30 giorni).
Nel suo rapporto S/2006/706, reso pubblico il primo settembre del 2006, pur-troppo, il Segretario Generale delle Nazioni Unite non ha presentato alcuna proposta al Consiglio di Sicurezza, ma si è limitato solamente ad evocare le posizioni sirio-libanese sulla questione, concludendo che le proposte del primo Ministro libanese pare che costituisca un’opzione seria e che era sul punto di studiare gli aspetti cartografici, giuridici e politici complessi di una tale andatura e che avrebbe soddisfatto il Consiglio di Sicurezza.

Il silenzio sui problemi attinenti la responsabilità
È incontestabile il fatto che la sovranità del Libano sia stata ancora una volta violata da Israele, che l’esercito israeliano ha fatto uso di armi internazionalmente inibite come le bombe a frammentazione e le munizioni al fosforo bianco, che le popolazioni civili, come i bambini, le donne e gli anziani, sono state prese come bersagli, che infrastrutture civili sono stati distrutti, che installazioni della forza di pace UNIFIL sono stati bombardati e, infine, che gran parte del litorale e del mare territoriale libanese sono stati inquinati da vari idrocarburi.
La risoluzione n.° 1701 non dice nulla su tutte queste questioni, se non un silenzio totale. Né nel preambolo, né nel dispositivo, in merito ad una serie di violazioni del diritto internazionale cogente e di quello umanitario, non vengono tenute in con-siderazione.
Il Consiglio di Sicurezza ha, ovviamente, per responsabilità principale il manteni-mento della pace e della sicurezza internazionale e non è un organo risolutore dell’ordine giuridico internazionale, ma, dopo la fine della Guerra Fredda, la prassi del Consiglio di Sicurezza – è vero per talune questioni e non per altre – considera il rispetto della dimensione umanitaria come componente principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Saranno sufficienti tre esempi molto noti, di cui uno concerne proprio il Libano. Nel conflitto della ex Jugoslavia e del Ruanda, il Consiglio di Sicurezza non ha esitato, basandosi sul capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ad istituire dei Tribunali penali internazionali ad hoc, incaricati di giudicare le persone presunte responsabili delle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commessi sul territorio dell’ex Jugoslavia o del Ruanda, di cui sono ben note le gravi infrazioni alle Convenzioni di Ginevra del 1949, le violazioni delle norme cogenti del diritto bellico come il genocidio, il crimini contro l’umanità e via discorrendo. Nel caso libanese e a seguito dell’assassinio, avvenuto nel febbraio 2005, dell’ex Primo Ministro Rafik Hariri, il Consiglio di Sicurezza ha istituito una commissione di inchiesta internazionale, con l’approvazione della risoluzione n.° 1595 del 7 aprile 2005 ed ha approvato, dopo aver ricevuto il rapporto dl Segretario Generale S/2006/893 del 15 novembre 2006, inerente la richiesta di una creazione di un tribunale per il Libano, il 21 novembre del 2006 la bozza dello statuto di un tribunale internazionale incaricato di giudicare i presunti colpevoli di questo assassino.
Giuseppe Paccione - Gennaio 2007